Alice Avallone insegna strategia e narrazione digitale alla Scuola Holden e fa ricerca con l’etnografia digitale. Raccoglie small data, insight e trend sul digitale, piccoli indizi che raccontano a chi come lei ha la curiosità di raccoglierli e la pazienza di incastrarli come tessere di un grande mosaico, chi siamo e come stiamo cambiando. Anche in questo momento di emergenza sanitaria.
È con il tempo che ci stiamo misurando, lo hai scritto tu. E questo tempo Alice che tempo ha? E come suona? È un solista o un’orchestra?
Pensavamo che il problema potessero essere gli spazi stretti, e invece a cambiare è soprattutto la nostra relazione con il tempo, che si distende e si raggomitola senza che noi possiamo averne così tanto controllo. A inizio emergenza, pensavamo che avremmo tutti avuto un sacco di tempo per guardare film, finire romanzi o imparare cose nuove, e invece la nostra solita vita quotidiana e lavorativa si è semplicemente riadattata alla nuova situazione.
Il mio tempo suona spesso stonato rispetto a quello che ogni mattina mi riprometto di fare: le ore non sono mai abbastanza, e a volte mi chiedo come facevo a sbrigare molte più cose in passato. Poi mi rispondo che, con tutta probabilità, abbiamo iniziato a respirare più a fondo, abbiamo imparato a prenderci il nostro tempo da solisti senza sentirci in colpa. In questo modo, quando veniamo chiamati a interagire con altri (in casa, in video call, al telefono), suoniamo tutti meglio insieme, perché più a nostro agio e più consapevoli di quello che facciamo.
Di questi tempi ognuno se ne sta nel suo territorio digitale con i membri della propria tribù: la famiglia si estende e finisce per comprendere anche gli affetti digitali. In questo senso i social fanno anche da rete da salvataggio per tutti quelli che sono a casa, magari da soli e un po’ provati. La pandemia da Coronavirus ha cambiato il modo in cui abitiamo il digitale?
È una domanda bellissima, che permette di fare due ragionamenti. Da una parte, la risposta ha a che fare con la quantità: chi già frequentava i territori digitali, oggi lo fa con maggiore frequenza; chi invece non li frequentava, è stato costretto a farlo per informarsi in tempo reale, confrontarsi con altri e perché no, anche dare un nuovo assetto al proprio lavoro. Penso, ad esempio, a tutte quelle attività commerciali che fino a questo momento avevano resistito ai social media e alle consegne a casa. Ci si reinventa, ed è un processo che non potrà fare marcia indietro una volta che sarà finito tutto.
Dall’altra parte, invece, la risposta alla domanda ha a che fare con un’altra categoria, la qualità. Stiamo imparando a rappresentarci sui territori digitali (ma anche in televisione, se pensiamo ai collegamenti con giornalisti e politici in felpa) in modo meno patinato, più autentico, con una qualità estetica più bassa. L’ho chiamata “il ritorno all’estetica del brutto”, citando il filosofo tedesco Rosenkranz che per primo ne parlò nei suoi scritti. Possiamo vederlo dal nostro feed di Instagram: le foto via via si sono fatte più sincere, casalinghe, senza filtri. La pressione a dover pubblicare lo scatto perfetto per mostrare una vita perfetta ha lasciato spazio a una nuova forma di espressione, che ha più a che fare con il reale che con il costruito. Anche questo aspetto, a mio avviso, non cambierà a emergenza conclusa.
Vuoi parlarmi di Back to The Future, l’iniziativa promossa da Be Unsocial?
Quando è scattato il lockdown nel nostro Paese, con Be Unsocial ci siamo attivati subito con una challenge su Instagram, che riuscisse a veicolare il valore di rimanere a casa, non solo per salvaguardare la propria salute e quella degli altri, ma anche per riscoprire il piacere delle piccole cose. L’attività è finita il 2 aprile, e il giorno dopo siamo ripartiti con #BackToTheFuture, ovvero una serie di proposte per ripensare al nostro futuro, tra un nuovo calendario di riflessioni da qui al 17 aprile e pubblicazioni su come stanno già cambiando i nostri comportamenti.
Tutti ci ritroveremo a fare i conti con quella che gli inglesi e gli americani hanno ribattezzato il #newnormal, ovvero una nuova normalità, fatta da un riassestamento delle nostre priorità individuali e ritrovati comportamenti collettivi che saranno più sensibili al “bene comune”. Ma non aspettiamoci cose così distanti da ciò che era già nell’aria: il Coronavirus ha semplicemente accelerato i processi già avviati, come la scuola digitale e lo smart-working. Un giorno guarderemo questo tempo con meno coinvolgimento emotivo, e sapremo apprezzare tutto ciò che di positivo ci ha lasciato in eredità.